Daniele Baldelli è considerato uno dei pionieri della musica elettronica in Italia e una figura di riferimento nel mondo dei DJ.  Definito da Jovanotti “il papà di tutti i DJ italiani”, ha costruito una carriera di oltre 50 anni, distinguendosi per la sua capacità di innovare e sperimentare con i suoni. Socio di Doc Servizi sin dall’inizio della sua attività, è rimasto per tutto il suo percorso professionale in cooperativa. Baldelli ha contribuito a definire il concetto di DJ set, introducendo tecniche di mixaggio e selezioni musicali che hanno influenzato generazioni di artisti. Ha suonato nei locali più iconici d’Italia, tra cui la Baia degli Angeli e il Cosmic di Lazise, diventando un punto di riferimento per la scena musicale nazionale e internazionale.  

Ci racconti come hai iniziato e come si è evoluto il tuo percorso artistico? 

Da ragazzino frequentavo il Canale Club a Cattolica, un locale molto popolare tra i giovani della mia età, intorno ai 16 anni. Passavo molto tempo vicino alla console, anche se all’epoca non si chiamava così: era semplicemente un angolo del bar con un giradischi. Un giorno il proprietario, vedendomi sempre lì, mi chiese se volessi provare a mettere i dischi. Ero titubante, ma lui mi rassicurò dicendomi che mi avrebbe insegnato. Così ho iniziato, suonando i dischi del locale, già ordinati in sequenza dal proprietario. Dovevo solo sollevare e abbassare il volume, senza cuffie, casse spia o regolazioni di velocità. Dopo circa sei o sette mesi passai al Tabù Club di Cattolica, dove la situazione era leggermente più avanzata: avevo una cassa spia, ma ancora niente cuffia o regolazioni di velocità. Per prepararmi, trascorrevo i pomeriggi ad ascoltare i dischi del locale, dato che non potevo portarli a casa. Era un periodo di sperimentazione, provavo ad accostare le tracce basandomi sulle velocità simili, anche se il vero missaggio era ancora lontano. Negli anni ’70, con l’evoluzione della tecnologia, arrivarono i primi strumenti che permettevano qualche regolazione di velocità, seppur rudimentale. Nel 1975 aprì la Baia degli Angeli a Gabicce e, dopo aver finito il mio turno al Tabù alle 3 di notte, correvo lì per assistere ai DJ americani che suonavano dischi introvabili in Italia, poiché l’importazione musicale non era ancora diffusa. Loro utilizzavano tecniche innovative, come rimuovere la gomma dal giradischi per poter lanciare i dischi con le dita, un trucco che mi insegnarono quando vennero a farmi visita al Tabù. Dopo la chiusura della Baia nel 1978, fui contattato per un nuovo progetto sul Lago di Garda: il Cosmic. Nel 1979 portai con me tutto il bagaglio musicale della Baia, fatto di disco music e funky. Nel 1980, però, iniziai a esplorare nuovi generi come punk e new wave, cercando di mescolarli con la disco tradizionale. Questo processo diede vita a quello che mi piace chiamare “Cosmic Sound”, un termine che preferisco rispetto ad “Afro”, come veniva definito allora. Un giornalista inglese una volta scrisse che il Cosmic Sound non è un genere, ma un modo di essere DJ, ed è proprio così: si tratta di una fusione di stili con tecnica, fantasia e creatività. 

Sei stato uno dei primi soci di Doc Servizi e ne sei rimasto parte per tutta la tua carriera. Quali vantaggi hai trovato? 

Aspetto ancora la mia medaglia! (ride). In realtà è nato tutto per caso. Un amico musicista romagnolo mi parlò di questa cooperativa, e mi spiegò che offriva un supporto fiscale strutturato. Entrai così in contatto con Demetrio Chiappa e fui uno dei primi DJ accettati nella cooperativa, che poi divenne Doc Servizi. Da allora ne faccio ancora parte. 

Raccontaci di “Cosmic Life”, il documentario sulla tua carriera… 

Il progetto è nato grazie a un team di Jesi, la Surboin Lab. Dopo i primi contatti, abbiamo avviato un crowdfunding per finanziare la produzione. Ci sono stati diversi ostacoli, tra cui la pandemia, ma alla fine siamo riusciti a completarlo. Abbiamo intervistato personaggi chiave del mondo della discoteca, come Bill Brewster e Severino, oltre ai proprietari dei locali in cui ho lavorato. Questo documentario è un viaggio nella mia carriera da DJ, una passione che ho sempre avuto nonostante avessi studiato per diventare dottore in agraria. 

Negli ultimi anni sembra esserci un grande interesse per la storia del clubbing italiano. Come vedi l’evoluzione della scena musicale da quando hai iniziato ad oggi? 

La musica cambia ciclicamente ogni dieci anni, ma alla fine si ritorna sempre alle radici. Ci sono tante innovazioni, soprattutto a livello di produzione, ma molte cose nascono, crescono e poi scompaiono. Io ho sempre seguito il mio stile, senza mai suonare house o techno. Preferisco la musica suonata da veri artisti, con strumenti reali e un’anima. 

Oggi la figura del DJ e quella del producer sembrano sovrapporsi. Cosa ne pensi? 

Ormai tutti si definiscono DJ e producer solo perché usano una macchina con suoni preimpostati, un po’ come costruire con i mattoncini Lego. Certo, qualcuno emerge con talento, ma la distinzione tra DJ e performer resta importante. Personalmente, preferisco suonare nei club, dove il pubblico apprezza davvero la musica. Suonare per 50.000 persone con Jovanotti è stato incredibile, ma nei club l’esperienza è più intima e coinvolgente.